mercoledì 14 novembre 2012

Vado a scuola, in tuta mimetica, come in trincea…

di Mario M. Merlino




Rode alla maggioranza dei miei colleghi che trovi consenso tra gli studenti. Ad appena due anni che insegno in quel liceo, ‘democratico’ e ‘rosso’ come si ostinano a definirlo alcuni professori. Colpa della loro ipocrisia, della loro viltà, in fondo della loro reiterata impotenza. Alcuni di loro furono strattonati e sputacchiati quando, in clima di compromesso storico, gli studenti dell’Autonomia si sentirono traditi. Seconda metà degli anni Settanta.
‘Ci avete insegnato il dovere della rivolta. Ci avete spinto ad essere contro. La praxis rivoluzionaria. Marx Lenin Mao e tante altre icone unite nella lotta. Ora ci lasciate da soli per il 27 del mese, il registro e la cattedra, accettando di coabitare con quel potere borghese, che tramite vostro abbiamo imparato a dispregiare e combattere’… Chi poteva dare loro torto, al di là della spranga brutale e della molotov incendiaria e la P38 assassina. Di questa ipocrisia viltà impotenza, allora, il prezzo fu quello di giovani, giovanissimi rossi e neri, rimasti a mordere l’asfalto.


Poverini, bisogna capirli. Come si fa a schierarsi dalla parte degli USA, dopo le manifestazioni, i cortei contro la guerra del Viet-nam, quello scandire ‘Uno, cento, mille Vietnam!’ oppure ‘La NATO sarà il nostro Vietnam!’…
(parentesi ludica. Estate ’69, ostello al centro di Budapest. Chi può vantarsi d’aver conquistato tra le cosce di una nordvietnamita, alquanto bruttina a dire il vero, il premio più ambito per un borghese capellone romano, già allora in cerca di una sintesi tra fascismo e anarchia?).

Peggio. Come si può parteggiare per Saddam Hussein, equiparato dalla stampa mondiale discepolo prediletto da Hitler… Meglio tirarsi indietro. Come allora, ancora una volta, come sempre. Solo Merlino, l’inguardabile, l’innominabile, il reietto, l’appestato se ne frega e così gli studenti, riuniti nella palestra femminile, si riuniscono in unica assemblea su invito di grandi fogli di carta per i corridoi e siglati con la falce e martello, la A degli anarchici e la croce celtica. Febbraio ’91.

Francamente è troppo. Rimugina, fine anno scolastico, rimugina, vacanze estive, rimugina, inizio nuovo anno scolastico, rimugina e, trovato!, organizziamogli una manifestazione contro, guarda caso!, nell’anniversario della strage di Piazza Fontana, il 12 dicembre. Ovviamente chiedendo il supporto degli studenti di più istituti che loro (gli insegnanti) si accontentano di fotocopiare pagine de La Strage di Stato e distribuirle gratuite, nel timore, sospetto, di essere passibili di denuncia per aver impedito di esercitare il diritto all’accesso al lavoro…

Mi manda a chiamare la Preside. Qualcuno l’ha preavvisata di quanto sta per accadere. ‘Sono dispiaciuta…’. Mi invita a restarmene a casa. ‘Me lo ordina?’. ‘Non posso’. ‘Allora verrò a scuola. Se non venissi, ognuno si sentirebbe autorizzato ad impedirmelo in qualsiasi momento, per qualsiasi occasione. Io so fare solo l’insegnante; è ciò che ho sempre desiderato fare. Potrei venire ‘accavallato’, accompagnato; potrei fare in modo che qualcuno se ne ricordi e malamente… ma i ragazzi, anche se dimostrano di possedere la sensibilità del boia, sono sempre vittime del mondo adulto. Non sono un eroe; sono fuori da certe logiche. Ma verrò, verrò da solo’.

Arrivo con la macchina. Sui muri del quartiere hanno attaccato grandi manifesti rigirati e con scritte inequivocabili con pennarello rosso. Sono forse un vampiro? Sul marciapiede un gruppo di gente dal vocio alto arrogante e scomposto inveisce. Carabinieri allineati, elicottero ruotante. Parcheggio distante. Se devo prendere le botte, almeno salvo la macchina. Animo borghese, in fondo, ed anche un po’ spilorcio. Avanzo con passo lento e sicuro. Fasullo all’inizio; poi prende corpo il vecchio attivista che sta al gioco e, in qualche modo, ci trova anche gusto.

Il Nietzsche del ‘prendere le distanze’… Io volo e gli altri sono inchiodati ad un patibolo d’ombre. Fantasmi. Io sono tolemaico, asse di me stesso, gli altri subiscono il principio di gravità e, emuli del Galilei, girano intorno al sole. Sconfitti. C’è una netta separazione tra l’idea del tragico e la manifestazione del ridicolo?

All’angolo cinque o sei sbarbatelli mi guardano. Qualcuno fa il gesto di coprirsi il volto con la sciarpa. Ci siamo. Passo in mezzo a loro. Niente. Mi sorridono, abbozzano un saluto. Forse ne sono deluso. Con i miei capelli lunghi, la barba, il basco alla Guevara (senza la stella rossa, va da sé) mi hanno confuso per un residuato del ’68 e dintorni. Magari a contestare il mostro ‘con le mani sporche di sangue’, come hanno scritto su uno dei fogli per strada. Di fronte all’istituto c’è ressa di studenti. Non sono entrati per curiosità. Basta niente per alleviare la noia del quotidiano… C’è chi mi fa un cenno, altri dimostrano simpatia. Poi entreranno, i miei, a seguire la lezione.

Una ragazza con il megafono mi volge le spalle. Sta declamando come, timoroso di confrontarmi con loro, sia sceso sul tetto della scuola dall’elicottero della polizia alle sei del mattino. Fisico alla Rambo, suppongo. Mentre varco il cancello, tutti ridono…

Recitava uno slogan del maggio francese ‘la rivoluzione sarà una festa’… a me sembra che, partendo da una delle formule icastiche di Leo Longanesi ‘la rivoluzione non è una diarrea’, siamo tutti finiti in un mare di merda…

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